Marcello Maltese. Paesaggi – La terapia del colore – XXVIII Seminario internazionale e Premio di Architettura e Cultura Urbana Camerino
Marcello Maltese
Paesaggi. La terapia del colore
Testo critico di Roberta Melasecca
XXVIII Seminario internazionale e Premio di Architettura e Cultura Urbana
LA NUOVA ARCHITETTURA
1 – 5 agosto 2018 | Auditorium Benedetto XIII Camerino
Durante il XXVIII Seminario internazionale e Premio di Architettura e Cultura Urbana di Camerino, verrà inaugurata, il giorno 1 agosto 2018 alle ore 19.00, la mostra “Paesaggi. La terapia del colore” di Marcello Maltese con un testo critico di Roberta Melasecca.
“I paesaggi sono fatti culturali, poiché sempre abitati, percepiti e trasformati dall’azione e dalla presenza umana, e dunque doppiamente diversi e significativi in funzione della loro situazione geografica e delle società umane che li hanno plasmati.” (Marc Augé, Qui e Altrove nell’era della globalizzazione, in Nuovi argomenti. Vol. 78: Lezioni di vero, 2017)
La parola paysage nasce alla fine del ‘400 sulla base della parola olandese landschap, per indicare il nuovo genere della pittura di paesaggio e la rappresentazione pittorica di un luogo. In seguito il significato si è esteso per definire una parte di territorio visibile allo sguardo dell’osservatore. La percezione del paesaggio avviene mediante due sfere: quella precognitiva, che attiva i sensi e il corpo e implica l’esperire, l’osservare e l’agire; e quella cognitiva e culturale. Il paesaggio assume così un “significato percettivo, estetico, artistico ed esistenziale”. Per Marc Augé ogni paesaggio suscita due tipi di memorie, riflessi del passaggio di chi ha vissuto e partecipato un determinato luogo: una memoria collettiva ed un insieme finito di singole immagini e ricordi individuali. “I paesaggi sono frutto di attività e prodotti di invenzione, alla stregua di opere d’arte, poiché dipendono dallo sguardo che si attarda su di esse o che le sorvola. Come le opere d’arte o come gli stessi individui umani, verso i quali ognuno di noi può provare attrazione, repulsione o indifferenza.”
Marcello Maltese sorvola i suoi paesaggi, toccando ogni minimo e impercettibile dettaglio, e il suo sguardo si attarda su di essi per scoprirne quegli aspetti nascosti all’esperienza: sono il risultato del suo agire sul territorio, del percorrere solchi e zolle, stratificando colori e profumi, tracciandone luci e tessiture. Sono spazi percettivi di un ambiente materiale e visibile, spazi limitati ma non finiti, aperti all’infinito nei loro limiti fisici; contengono memorie di storie, collettive e individuali, e narrano di una cultura antica e sapiente. Sono assimilabili ai metaspazi definiti e teorizzati da Rosario Assunto per il quale il paesaggio è l’infinito della città, il completarsi della città in una realtà che la colloca al centro di un orizzonte più vasto, potenzialmente illimitato; e la città è l’infinito del paesaggio al quale conferisce valore.
Con gesti immediati ed istantanei Maltese descrive lo scorrere del tempo, mostrando, ad un osservatore non più così tanto esterno, il variare delle nuvole e il mutamento delle stagioni, la potenza degli elementi naturali e la presenza modificatrice dell’uomo. Descrive orizzonti momentanei o durevoli di contesti immateriali e invisibili: terreni arati, isole galleggianti, coltri di nubi e di mare sembrano comporre una geografia dell’anima, paesaggi interiori reali quanto quelli esterni, pervasi da una proiezione biunivoca di mondi e spiriti. E così l’artista non subisce il senso estetico del luogo ma incarna il genius loci, una sorta di sentimento oceanico per il quale l’Io si fonde con il paesaggio: una potenzialità avvertita inconsciamente che rievoca la relazione con l’ambiente che ciascuno ha abitato all’origine, il ventre materno, e viene poi sperimentato nella relazione con la natura. L’artista ne trae forza benefica e salvifica ed ogni gesto è intriso di potenza terapeutica: l’interazione sensitiva e percettiva con il territorio permette di ritrovare e ripristinare l’equilibrio fisiologico e spirituale.
I paesaggi che compongono le diverse serie – cieli, nuvole, tessiture – sono istintivi, fuggevoli: realizzati ora con pennellate leggere, pastelli dai colori distesi e serafici, ora con tratti decisi ed intensi, inchiostri dai toni surreali che immaginano scenari improbabili di nubi striate o blob di apocalissi. Non sono immagini fissate in un tempo e in uno spazio, ma fotogrammi in movimento dove scorre il vento, impetuoso o leggiadro, oppure abbaglia il sole, fiammeggiante o offuscato. Sono piccoli carnet di passaggi ed habitat dominati da cromatismi attesi o inaspettati, intenti a tracciare mappe di odori, suoni, visioni che si sovrappongono e variano istante dopo istante, e a rivelare legami, memorie, empatie e simbiosi. Maltese, mediante la scelta di colori, segni, velature e trame, tenta di instaurare e raggiungere un equilibrio tra il perturbante e il familiare, per una ricostruzione e rinnovamento del rapporto uomo-natura e un rifondamento di un processo estetico in una storia in continuo divenire.
“L’umanità può vivere senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui.” (Fëdor Dostoevskij, I demoni)